La recita del rosario
La recita del rosario è un pio esercizio, con una lunga storia dietro di sé, da sempre pregato e raccomandato dalla Chiesa. A causa della crisi della preghiera, si è sentito la necessità di ripresentarlo, in un contesto piú ampio del culto verso la vergine Maria, visto sotto gli insegnamenti del CEV II, dell’esortazione apostolica Marialis cultus (2-2-1974), del papa Paolo VI, che tiene in considerazione l’altra sua esortazione apostolica Recurrens mensis October, (7-10-1969), e, soprattutto, della lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae (16-10-2002), del b. Giovanni Paolo II. Se il rosario viene presentato e pregato, secondo queste nuove direttive, esso diventa veramente, come diceva Pio XII, “un compendio del Vangelo”. Attraverso la vergine Maria, questa preghiera ci fa uscire, dallo spazio e dal tempo, ed entrare in intimità con Dio eterno!
Come nasce e si evolve il rosario
Con il termine di rosario si indica una corona di 150 grani (di 200, dopo la lettera apostolica Rosarium virginis Mariae), divisi in diecine, concluse con un chicco piú grande e isolato. L’uso di pietre o collane di grani, per accompagnare una preghiera, simile al rosario, era in vigore, anche fuori dal cristianesimo. Nella nostra religione, un esempio, è quello della celebre Lady Godiva di Coventry (Inghilterra), che morí intorno al 1075, lasciando in eredità, come scrive Guglielmo di Malmesbury , “il giro di pietre preziose, che aveva infilato in una corona, in modo che, toccandole con le dita una dopo l’altra, poteva contare esattamente le proprie preghiere”. Nel mondo cristiano, questo pio esercizio, come antenato del rosario, fa parte di un patrimonio di devozioni, che viene da molto lontano. Infatti, già i padri della Tebaide (Egitto), nei primi secoli, usavano cordicelle nodate, per pregare 150 Ave Maria, nell sua sola prima parte. (La seconda parte fu aggiunta da s. Pio V, nel 1566). Esso era una forma di devozione parallela alla Liturgia delle ore, in cui si recitavano i 150 Salmi. Questa forma di devozione appare, con chiarezza, dal secolo XII. Nell’Ordine domenicano vi è la leggenda (= non inventata, ma da leggersi), secondo cui il rosario sarebbe stato dato da Madonna a s. Domenico di Guzmán (cognome della sua nobile famiglia), nato nella cittadina spagnola di Calervega, come arma per combattere contro gli albigesi. Questa loro paternità è confermata anche da Paolo VI, nell’esortazione apostolica Marialis cultus: “I figli di s. Domenico, per tradizione, sono custodi e propagatori di cosí salutare devozione” (MC 43). Sebbene s. Domenico possa esser stato favorito da una visione, non si tratta, comunque, del rosario, com’è nella forma attuale. Fino all’inizio del XV secolo, in cui nacquero due forme diverse del rosario, ancor oggi in vigore, è difficile, chiaramente, far presente le loro nascite. Con certezza, prima di allora, sappiamo che il certosino, Enrico di Kalkar, nel secolo XIV, nella struttura del rosario, che allora era chiamato “florilegio”, lo divide, in 15 decine di Ave Maria, e inserisce, tra una decina e l’altra, la recita del Padre nostro. Il rosario era chiamato “florilegio”, in quanto, nel medioevo, che finisce con la scoperta dell’America (1492), “rosario”, era una corona di fiori, che i cavalieri vincitori offrivano alla propria dama, quindi un termine, che sapeva di profanità. All’inizio del XV secolo, cui accennavo sopra, nascono due forme della recita del rosario, che tuttora sono ancora in vigore. a) La prima forma, soprattutto nel mondo tedesco, è stata presentata da un altro certosino, Domenico le Chartreux di Prussia, tra il 1410 e 1439. Il rosario-florilegio veniva ed è, tuttora, recitato in questo modo. Dopo ogni Ave, Maria (sola prima parte), costui ha aggiunto, a modo d’intervallo, una “clausola” o “chiusura”, che evoca episodi della vita di Cristo e della mortificare “la carne con i vizi e le concupiscenze” (Gal 5, 24). Nella catechesi a Raffaelina Cerase sulla mortificazione, p. Pio scrive, il 23-10-’14, che è necessaria, perché “tutti i mali provengono dal non aver saputo o dal non aver voluto mortificare, come si doveva, la vostra carne. Se volete guarire, giú alla radice, bisogna dominare, crocifiggere la carne, poiché è dessa la radice di tutti i mali… Vogliamo vivere spiritualmente, cioè mossi e guidati dallo spirito del Signore? Siamo accorti nel mortificare lo spirito proprio, il quale ci gonfia, ci rende impetuosi, ci dissecca” (Ep. II, 204-205).
E, altrove, alla stessa nobildonna di Foggia, il 17-12-’14, suggerisce: “Nel mangiare guardatevi dalla soverchia ricercatezza dei cibi, sapendo che poco o niente basta, se si vuol dare soddisfazione alla gola. Non prendete mai cibo il piú del bisogno e procurate in tutto di essere temperante, standovi sommamente a cuore di declinare piuttosto al mancante che al soverchio… Il tutto sia regolato con prudenza, regola di tutte le azioni umane” (Ep. II, 276-277). Al nostro padre maestro di noviziato, Federico Carozza da Macchia Valfortore CB, discepolo del santo p. Pio dal settembre 1916 al settembre 1918, p. Pio diceva: “Vi ricordo il proverbio indiano: «Qui semel est Deus est, homo qui bis, bestia qui ter = Chi mangia una volta al giorno è Dio, chi due volte è uomo, chi tre volte è una bestia»”. Il dominio di sé e l’abnegazione, in senso cristiano, non hanno nulla a che fare con l’odio verso il proprio corpo. Scopo: Lo scopo del digiuno è quello di rafforzare la gioia interiore, che si deve manifestare anche esteriormente con la luminosità del volto, perciò Gesú suggerisce nel digiunare di lavarsi il volto e profumarsi il capo, per non banalizzare questo mezzo ascetico (cf Mt 6,16-18). La mortificazione non è scopo, ma solamente mezzo, per allenarsi all’amore verso Dio e il prossimo. Tuttavia, c’è una mortificazione ancora superiore: quella interna, che è abnegazione di sé e della propria volontà, che combatte il nemico principale del cristiano: il proprio orgoglio. Parlando di questa mortificazione superiore, il b. Giovanni Paolo II, per l’anno santo del 2000, ci presentò un altro concetto sul vero digiuno. Esso consiste nella “purificazione della memoria”, cioè nell’atto di coraggio e umiltà, compiuto in coscienza, con la chiara intenzione di considerare gli altri superiori a se stessi e di dimenticare le offese ricevute, donando con amore il perdono. È questo un cambiamento interiore, che richiede il digiuno del proprio orgoglio, del proprio io. È questo, soprattutto, il digiuno, che piace al Signore, che genera nel cuore dei credenti, il desiderio ardente di vivere in intima unione con Dio e i fratelli.
2ª domanda: “E il nostro digiuno?”.
Il digiuno fisico: Il digiuno non dev’essere fine a se stesso, perché cosí non avrebbe senso. Esso deve avere anche una funzione sociale a favore dei poveri. P. Pio esortava a imitarlo nell’austerità del mangiare e del bere, nel sacrificarsi colla rinuncia e nel dominio dei sensi. Oggi è difficile trovare chi sia disposto a digiunare per queste finalità. Quelli che l’affrontano lo fanno per questioni di “linea”. Attenzione: per questa finalità, è peccato “l’esagerazione nell’esercizio della penitenza”, perché può recare danni alla salute (cf malati d’anoressia e bulimia) e difficoltà nel campo psichico e morale. Scrive s. Tommaso, citando s. Girolamo: “Non vi è alcuna differenza se tu ti uccidi in un tempo lungo o in un tempo breve. Colui che affligge eccessivamente il suo corpo con un nutrimento miserabile o insufficiente o con veglie esagerate offre una rapina al posto di un sacrificio” (S Th, IIa IIae, 147, a. 1, ad 2um).
Padre Pio e sorella morte
Siamo nel mese, che la Chiesa ha dedicato, consacrato ai nostri cari defunti: il mese di novembre. Tutti, chi prima,...