Il 23 aprile si è celebrata – come ogni anno – la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore, nota anche come Giornata del Libro e delle Rose, un evento organizzato dall’UNESCO al fine di promuovere la lettura dei libri come strumento di informazione, tutelandone al contempo la proprietà intellettuale attraverso il diritto d’autore. L’UNESCO inoltre conferisce ogni anno il titolo di Capitale Mondiale del Libro alla città che ha maggiormente promosso i libri e la lettura. Quest’anno l’ambito riconoscimento è stato assegnato a Strasburgo, città francese in cui hanno sede anche l’Europarlamento ed il Consiglio d’Europa. Dal 2001 in poi, l’unica città italiana che ha ottenuto questo titolo è stata Torino nel 2006. La “Vecchia Signora” è infatti sempre stata vicina all’editoria organizzando da oltre 30 anni il Salone Internazionale del Libro, che rappresenta la più importante fiera italiana del Libro. Anche quest’anno – dal 9 al 13 maggio – Torino ospiterà la 36.ma edizione di questa importante manifestazione in cui si ritroveranno case editrici, scrittori, librai, bibliotecari e tantissimi lettori.
La data del 23 aprile non è stata scelta casualmente dall’UNESCO. In quel giorno, nel lontano 1621, scomparvero contemporaneamente tre “giganti” della letteratura mondiale di tutti i tempi: Miguel de Cervantes, creatore della mitica figura di Don Chisciotte della Mancia, William Shakespeare, il più grande poeta e drammaturgo inglese e Garcilaso de la Vega, storico peruviano grazie al quale sono giunte a noi numerose testimonianze sulla vita degli Incas sudamericani. Il 23 aprile è anche nota però come Giornata del Libro e delle Rose a ricordo di un’antica leggenda medievale catalana legata alla figura di San Giorgio. Il Santo – secondo la leggenda – arrivò a Montblanc, in Tarragona, dove trovò un drago che uccideva gli abitanti del posto. Questi, per placarne la fame, decisero di sacrificare una persona al giorno, scegliendola a caso fra la popolazione. Quando toccò alla figlia del re, intervenne San Giorgio che, in sella al suo destriero, trafisse il mostro con una spada salvando la principessa. Dal sangue del drago spuntò un roseto da cui il cavaliere colse un fiore che donò alla fanciulla. Il dono della rosa è un gesto che da allora, in Spagna, si ripete ogni anno il 23 aprile tra gli innamorati. Al dono delle rose si è aggiunta successivamente anche la consuetudine di regalare un libro: l’uomo regala una rosa alla sua donna e questa contraccambia il dono offrendo un libro al suo uomo.
Valorizzare i libri significa promuovere e diffondere la cultura ed il pensiero umano. In questa importante ricorrenza anche la Comunità di Sant’Egidio ha voluto contribuire a “fare cultura” ricordando di aver curato la pubblicazione di diversi libri che vanno dal tema della spiritualità a quello della solidarietà. Alcuni di questi (“Dio non ci lascia soli” di Matteo Maria Zuppi e “Sant’Egidio. La storia, il culto e le fonti” di Marco Bartoli e Francesco Tedeschi) sono stati già recensiti in precedenti articoli.
Notevole interesse ha suscitato un libro pubblicato lo scorso anno e che ci viene riproposto da Sant’Egidio alla lettura e alla meditazione. Si tratta de “Le Guarigioni nella Bibbia. Da Giobbe a Gesù” di Maria Cristina Marazzi, Ambrogio Spreafico, e Francesco Tedeschi (Editore: Morcelliana).
Il libro è incentrato sulla malattia e sulla sofferenza umana e sul grande interrogativo del perché esista il dolore ed il male nel mondo. Una domanda a cui tutti vorremmo dare una risposta sfruttando la nostra ragione e la nostra intelligenza. Tuttavia, ciò non è possibile ed il mistero del dolore si può comprendere soltanto attraverso un atto di fede. In questo senso la lettura della Bibbia e di alcuni episodi in cui Gesù viene a contatto con gli ammalati può diventare illuminante. Come infatti riportato nell’introduzione al libro scritta da Marco Impagliazzo, Presidente di Sant’Egidio, “La Bibbia ci aiuta ad andare in profondità sui temi affrontati da questo libro quali la sofferenza umana e la malattia offrendoci un’interpretazione alternativa e ispirando una grande consolazione”.
La prima storia che viene sottoposta alla nostra attenzione è quella di Giobbe. Narrata nell’omonimo Libro dell’Antico Testamento rappresenta un classico della riflessione universale sul senso del dolore umano. Giobbe è un uomo che all’improvviso, dopo una vita vissuta nella fedeltà a Dio e ai suoi precetti, viene colpito da disastri e calamità che lo privano di tutto, dei suoi amati figli e delle sue ingenti ricchezze. Infine, anche la sua salute viene compromessa da una malattia che gli procura dolore in tutto il corpo. Giobbe accetta l’inspiegabile sofferenza senza ribellarsi a Dio. Tuttavia, ritenendosi innocente e giusto, vuole capire perché a lui non viene applicata la “legge della retribuzione” in base alla quale – secondo la sapienza antica – chi opera il bene riceverà il bene mentre chi opera il male riceverà un giusto castigo.
E’, in pratica, la domanda che si pone ogni uomo di fronte alla malattia e alla sofferenza che viene vissuta come un atto di profonda ingiustizia soprattutto quando colpisce colui che ha sempre vissuto secondo i precetti di Dio. Di fronte all’incapacità di comprendere il “dolore innocente”, Giobbe si rivolge direttamente a Dio con parole che, se non fosse per la forza della disperazione, potrebbero essere scambiate con un atto di ribellione: “Ma io all’Onnipotente vorrei parlare, a Dio vorrei fare rimostranze”; “mi uccida pure, non me ne dolgo; voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta!”. E Dio gli risponde. E lo fa in modo sorprendente. Lo invita infatti ad uscire, a guardare fuori il cielo stellato, ad osservare la natura, gli animali, la vita che si riproduce e popola la terra. Giobbe viene invitato da Dio a vedere la provvidenza, la cura che Egli esercita su tutte le cose. E lo fa secondo disegni che sono incomprensibili per gli uomini. Le vie con cui Dio conduce ogni cosa verso il suo fine sono note solo a Lui. La Sua logica non è la nostra! E solo affidandosi a Lui che l’uomo può trovare la pace e la consolazione pur nel suo immenso dolore! Ma la risposta che la vicenda di Giobbe ci consegna appare ancora “incompleta” perché la distruzione prodotta dal male non è ancora completamente superata. La risposta definitiva al mistero del dolore e della sofferenza sarebbe giunta solo alcuni secoli più tardi, come narrano i Vangeli. Tale risposta consiste nella fiducia che l’uomo deve riporre nel Figlio di Dio fatto uomo, che nella sua Croce abbraccia ogni sofferenza umana e nella sua Risurrezione mostra la potenza dell’amore di Dio di riannodare i fili spezzati delle nostre vite. Nel dramma della croce, Gesù non offre all’uomo che soffre una risposta “filosofica” all’enigma del male nel mondo, ma lo persuade che Dio porta su di Sé la sua stessa sofferenza, fino a morirne. L’essere umano può fidarsi di Dio, perché Dio, innocente, soffre come lui e con lui. E questa verità viene illustrata negli episodi in cui Gesù incontra gli ammalati e si fa partecipe della loro sofferenza promuovendone la loro miracolosa guarigione: l’indemoniato di Gerasa, i lebbrosi, l’epilettico indemoniato, la donna guarita, il buon samaritano, il paralitico di Cafarnao, il cieco nato, Maria di Magdala, ecc. In ogni episodio viene sottolineato come la malattia crei paura e solitudine, allontanando il malato dalla società, facendone un reietto. Con le sue gesta e i suoi insegnamenti Gesù ci invita invece ad essere “prossimi” agli ammalati, a condividerne le sofferenze, ad offrire loro aiuto e consolazione: uno sguardo alternativo sulla realtà umana.
Fra i più significativi episodi riportati vi è quello di un lebbroso che, incontrando Gesù, lo supplica e gli chiede di sanarlo. E Gesù, avendone compassione, lo tocca e lo guarisce. Il malato fa “compassione” a Gesù che “soffre con” lui. Quindi lo tocca, lo sfiora con una mano, quasi ad accarezzarlo. E, infine, lo guarisce. Il Vangelo ci indica chiaramente la strada da seguire quando incontriamo i “lebbrosi del nostro tempo” ovvero poveri, rifugiati, senza fissa dimora, tossicodipendenti, prostitute, ecc. Guarirli dai loro mali è possibile soltanto se nei loro confronti proviamo compassione e offriamo loro tutto l’aiuto possibile.
Altro episodio è quello dell’emorroissa, una donna che incontra Gesù con la speranza che possa guarirla dalle sue perdite ematiche emorroidarie. La donna è consapevole dell’imbarazzo che la sua malattia provoca tra la gente e, temendo che Gesù possa avere la stessa reazione, gli si avvicina da dietro le spalle e, senza profferire parola, gli tocca il mantello. Pensa (non parla!) che ciò sia sufficiente a farla guarire. Gesù avverte la sua presenza, “legge” nella sua mente, si volta, e la guarisce dicendole “Va, la tua fede ti ha guarita”. In questa storia si possono fare due considerazioni. La prima è che non sempre chi ha bisogno di aiuto lo manifesta apertis verbis, per un senso di vergogna dovuto alla sua malattia. E’ importante quindi riconoscere chi soffre nella solitudine e nel silenzio ed aiutarlo. La seconda considerazione è che solo un atto di fede può liberarci dal male e questo concetto richiama alla mente la risposta che Dio dà a Giobbe: ti sono vicino nel dolore perché ho a cuore tutte le creature del mondo.
Come questi, anche gli altri episodi che trattano delle guarigioni miracolose operate da Gesù dimostrano non solo che Dio è sempre vicino all’uomo che soffre ma anche che il dolore umano può essere giustificato nella fede in Gesù sofferente. Un messaggio importante che la Bibbia ed il Vangelo – a distanza di secoli – sono ancora in grado di proporre all’uomo moderno.