La nostra società sembra essere pervasa da un diffuso sentimento di rabbia ed aggressività come dimostrano gli innumerevoli fatti di cronaca riportati quotidianamente dai mass media e registrati con gli immancabili commenti – spesso insulsi – dai social. Non si tratta solo di femminicidi, infanticidi o omicidi che coinvolgono persone fragili e vulnerabili (anziani, senzatetto, immigrati, ecc) ma anche di suicidi che riflettono un’aggressività non solo verso gli “altri” ma anche verso se stessi. Per rimanere agli episodi più sconcertanti occorsi nelle ultime settimane, basta ricordare l’omicidio di Thomas a Pescara, un minorenne ucciso con inaudita ferocia da due suoi coetanei per futili motivi (una modesta somma di denaro non restituita). I due assassini dopo aver filmato l’evento sul telefonino si sono allontanati tranquillamente per andare a trascorrere una giornata al mare. Un altro episodio sconcertante che ha molto colpito l’opinione pubblica è quella dell’uccisione con 37 coltellate di Giulia Tramontano, una 29enne incinta di 7 mesi, il cui corpo è stato ritrovato dopo quattro giorni gettato vicino a dei box a Senago, in provincia di Milano. L’assassino, Alessandro Impagnatiello, compagno di Giulia, meditava già da tempo di sbarazzarsi della donna e del bambino che portava in grembo, avendole somministrato per mesi, a sua insaputa, un topicida “a lento effetto”. Infine, l’episodio occorso qualche giorno fa a Rimini dove una giovane donna si è lanciata nel vuoto dal quinto piano di un condominio con in braccio il figlio di 6 anni. Entrambi sono morti sul colpo.
Le ragioni di questa rabbia ed aggressività così diffuse nella nostra società sono da ricondurre, secondo la maggior parte degli esperti, ad un profondo senso di solitudine che pervade la vita dell’uomo moderno. A partire dalla fine del secolo scorso si è assistito ad un profondo e drammatico cambiamento sociale e culturale caratterizzato dal passaggio dal mondo del «noi» a quello dell’«io». Si è generata una nuova visione dell’uomo e della donna come individui isolati, “monadi dell’universo”, “atomi spirituali ed individuali” che seguono le proprie leggi senza interagire tra loro, immersi in un “vuoto relazionale” in cui ognuno vive la propria esistenza disinteressandosi degli altri.
Luigi Zoja, noto sociologo e psicanalista italiano, in un suo saggio edito da Einaudi nel 2009, ha definito questa profonda crisi sociale e culturale “La morte del prossimo”. Nella prefazione del libro, si legge “Ama Dio ed ama il prossimo, diceva il comandamento. Ma già per Nietzsche Dio era morto. E il prossimo? Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Il comandamento si svuota. Perché non abbiamo più nessuno da amare”.
La solitudine porta ad una desertificazione della vita che crea sofferenza psichica e spesso disagio o malattia mentale. In Italia otto milioni e mezzo di persone vivono da sole. Un terzo dei nuclei familiari è composto da una sola persona. In questa condizione di “normalità” si sentono più grida di dolore. Innanzitutto quello degli anziani che, non potendo più farcela a vivere da soli, vengono “accompagnati” nelle case di riposo ove finiscono la loro esistenza nell’abbandono “psichico” più totale. Circondati e aiutati da operatori socio-sanitari, non hanno tuttavia più contatti con i loro figli, parenti ed amici con i quali hanno trascorso la maggior parte della loro vita. Ma anche i giovani non sono immuni da questo dolore esistenziale. Lasciati “liberi” di crescere (se non addirittura abbandonati) dai genitori in nome di un’autonomia che non prevede imposizioni e controlli, i nostri giovani non riescono più a costruire relazioni sane con gli altri e finiscono o con l’isolarsi sempre più o, al contrario, in organizzarsi in piccoli gruppi (le cosiddette baby gangs) governati da leader che, sostituendosi alla figura genitoriale, propongono modelli di comportamento antisociale se non addirittura criminale.
Un altro errore che spesso viene fatto è quello di identificare la solitudine con il vivere da soli. In effetti si può vivere da soli ma essere parte (e sentirsi di far parte) di una rete sociale da cui trarre aiuto e fiducia in sé. Al contrario, si può vivere insieme con gli altri ma sentirsi esclusi ed isolati. Può succedere in famiglia, a scuola, sul lavoro, nella propria comunità. La solitudine è esperienza di isolamento, ovvero di non poter contare su legami significativi, di non essere compresi, di non appartenenza.
E in questo senso la solitudine sta diventando una vera e propria epidemia uccidendo non solo chi vive da solo o chi è povero o emarginato ma anche il ricco, il bello, e il giovane.
In questo scenario, già di per sé sconfortante, si sono inseriti tre eventi che stanno ulteriormente accentuando con le loro conseguenze la solitudine dell’uomo moderno: la pandemia, l’emergenza climatica e la guerra in Ucraina e in Medio Oriente.
La pandemia di per sé ha comportato per tutti e, in particolare, per i più fragili, l’isolamento sociale. Per mesi si è vissuti chiusi nel proprio domicilio con la possibilità di comunicare con gli altri soltanto tramite telefonino o PC. Le conseguenze sono state in alcuni casi devastanti. In ospedale non era consentito ricevere visite e molti sono morti nell’abbandono più totale, consolati unicamente dal personale sanitario o da qualche videochiamata con i parenti più stretti. A scuola si è data inizio alla cosiddetta DAD, o didattica a distanza, con cui era difficoltoso seguire le lezioni soprattutto per gli studenti più bisognosi di sostegno culturale. L’abbandono scolastico dopo il Covid ha raggiunto dappertutto numeri allarmanti. Nel mondo del lavoro è stato implementato il cosiddetto smart working, una forma di lavoro da remoto basato sull’uso “intelligente” delle nuove tecnologie digitali che, pur consentendo di non interrompere del tutto l’attività lavorativa, ha comunque creato nuovi problemi quali isolamento, incapacità di separare la vita lavorativa da quella personale e familiare e, non ultimo, problemi di sicurezza dei dati gestiti telematicamente.
Il riscaldamento globale della Terra (legato alla industrializzazione e alla deforestazione) sta provocando fenomeni climatici estremi quali inondazioni e siccità che hanno ulteriormente impoverito milioni di persone soprattutto dell’area subsahariana del continente africano e del SudEst asiatico. Ciò ha indotto soprattutto i più giovani a lasciare la propria terra e ad emigrare clandestinamente verso le aree più ricche del pianeta. Persone sole, spesso minorenni, che perdono la vita in questi viaggi della speranza gestiti da trafficanti di morte oppure riescono a concludere il loro viaggio in paesi che li respingono o li riducono in schiavitù facendoli lavorare in condizioni disumane con salari da fame.

E infine la guerra, quella che Papa Francesco ha definito la “terza guerra mondiale a pezzi”, conflitti bellici “locali” che riguardano decine di nazioni in tutto il mondo, spesso dimenticati dalla stampa internazionale. Ma per la prima volta dal 1945, da quando cioè l’Europa sembrava aver cancellato la guerra dal suo bagaglio politico e diplomatico, la guerra si è riaffacciata nel Vecchio Continente. La Russia da un lato e l’Ucraina con i suoi alleati occidentali dall’altro sono contrapposti in un conflitto del quale non si riesce ad intravedere la fine e che rischia di trasformarsi in una guerra mondiale senza più vincitori e vinti! A parte il carico enorme di sofferenza umana e di solitudine (con migliaia di orfani e vedove) che ogni conflitto comporta, quello russo-ucraino ha determinato conseguenze economiche incalcolabili. Lo stop degli scambi commerciali tra Europa e Russia ha di fatto sancito la fine dell’era di globalizzazione instaurata dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. In particolare, l’interruzione delle forniture di gas e di altre materie prime dalla Russia all’Europa ha aumentato l’inflazione europea riducendo le prospettive di crescita economica dei paesi dell’Eurozona. A sua volta il blocco degli scambi commerciali tra l’Unione Europea e la Russia con i suoi alleati (Bielorussia, Iran e Corea del Nord) sta creando una grave crisi economica in questi paesi solo in parte mitigata dal sostegno – in chiave antioccidentale – fornito dalla Cina. A parte la creazione di “nuovi poveri”, questo complesso scenario sta alterando l’equilibrio geopolitico mondiale e ha di fatto creato un fronte tra la NATO e la Federazione Russa il cui esito è estremamente incerto.

A causa del rallentamento dell’economia causato dalla pandemia, dall’emergenza climatica e dalla guerra, sono aumentati la povertà e la diseguaglianza sociale. Il disagio economico-sociale – acuito anche dalla immigrazione di masse di persone non facilmente integrabili – ha messo in crisi le grandi democrazie occidentali e ovunque aleggiano venti di nazionalismo e populismo. La demagogia sta lentamente prendendo il sopravvento sulla democrazia: i politici fanno sempre più leva sui bisogni sociali della popolazione, alimentano la paura, l’odio e la rabbia nei confronti degli avversari e cercano il consenso utilizzando i sentimenti e gli umori dell’”ultimo momento”. Attraverso la diffusione di false informazioni (fake news), i demagoghi costruiscono il consenso “democratico” per arrivare al potere senza tuttavia perseguire la finalità di ogni sistema democratico, ovvero l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza economica e sociale.
In un mondo sempre più orientato all’individualismo e alla demagogia, che significato ancora conservano parole quali “democrazia”, “libertà”, “giustizia”, “unità”, ecc? Eppure queste parole per decenni sono stati “fari dell’umanità” per le quali si sono combattute battaglie epocali che hanno portato alla fine dei regimi totalitari, alla decolonizzazione, alla costituzione di organismi internazionali volti a difendere i diritti dell’uomo e dei popoli e a garantire pace e uguaglianza sociale. L’individualismo esasperato, la cultura dell’”io” (quando piuttosto non diventa “super-io”) mina le basi del sistema democratico creando diseguaglianza e povertà.
La Chiesa è da sempre particolarmente attenta a questi aspetti politici, sociali e culturali. Non a caso si è da poco conclusa a Trieste la 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia dal titolo “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”, che quest’anno ha visto anche la partecipazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel suo messaggio conclusivo Papa Francesco ha sottolineato come “la democrazia [oggi] non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo”. E ancora: “Non lasciamoci ingannare dalle soluzioni facili. Appassioniamoci invece al bene comune. Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e dell’ecologia integrale”. “La fraternità fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo. Purtroppo questa categoria – popolo – spesso è male interpretata e, potrebbe portare a eliminare la parola stessa democrazia (governo del popolo). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. Che non è populismo, è un’altra cosa”.

Un altro prezioso contributo alla 50ma Settimana sociale dei cattolici italiani, è arrivato dal libro «Chiesa e democrazia» (edito dalla Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, Roma) di Mario Toso, vescovo di Faenza-Modigliana, uno dei massimi esperti contemporanei della dottrina sociale della Chiesa. Per Toso la crisi della democrazia è legata alla crisi della libertà: le élite tecnico-finanziarie ed economiche sono governate dalla logica esclusiva del profitto. I risvolti sociali sono volutamente trascurati. Squilibri occupazionali e distributivi sono frutti di disuguaglianze crescenti. Inoltre, la fraternità è negata dalla terza guerra mondiale a pezzi e dalle chiusure rispetto ai flussi migratori.
Se non può esserci democrazia senza libertà non può esserci democrazia senza partecipazione.
Giorgio Gaber, uno dei più apprezzati cantautori italiani del Novecento, ce lo ricorda nella sua più celebre canzone, “La Libertà”. Essere libero non significa vivere in solitudine, fuori dalla società: la libertà non deve essere fine a se stessa, ma deve essere condivisa; “non è neanche il volo di un moscone” perché non ci si può sentire liberi stando soli, ma “la libertà è partecipazione”, che si può provare solo stando in una democrazia.
Superare l’individualismo e l’indifferenza e ricreare le basi di una democrazia realmente partecipativa, inclusiva e promotrice dei valori di libertà, eguaglianza e fraternità che non sono solo i tre ideali a cui si è ispirata la Rivoluzione francese ma sono anche i cardini di una convivenza civile equilibrata e generativa ispirata ai princìpi evangelici.
Ma come fare? Una delle risposte più convincenti ce la fornisce Andrea Riccardi rifacendosi all’Enciclica “Fratelli tutti” nel suo libro “Rigenerare il futuro” pubblicato da Morcelliana Scholé, Brescia.
L’ autore, Fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ricorda come alla radice della “Fratelli tutti” ci sia «un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limita alle parole», un sogno da fare insieme «come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!»
Quello di una società fraterna è un sogno antico che, partendo da San Francesco di Assisi (tra i primi ad averlo saputo suscitare) è stato riproposto nel tempo anche da Martin Luther King, da Desmond Tutu, dal Mahatma Gandhi e da molti altri ancora.

Finora questo sogno di fratellanza universale non si è realizzato ma deve essere riproposto perché è alla base del futuro dell’umanità.
Diceva il Cardinal Martini “occorre il sostegno di un sogno, di un utopia su cui misurare il presente, graduare gli interventi possibili senza lasciarsi imbrigliare dalle piccole urgenze quotidiane”, e concludeva “bisogna sognare alla grande”.
Zygmunt Bauman, grande sociologo polacco del secolo scorso, scrive che l’intenzione del messaggio di Papa Francesco è quella di trasferire le sorti della coabitazione pacifica tra gli uomini dall’ambito vago ed oscuro della grande politica, nelle strade, nelle officine, nelle scuole, negli spazi pubblici dove noi ci incontriamo. Occorre togliere le speranze dell’integrazione dell’umanità a quelli che comandano per affidarli agli incontri quotidiani tra vicini e colleghi, a noi che siamo “i molti”.
Con il Covid abbiamo capito – sono le parole che il Papa pronunciò in una Piazza San Pietro completamente deserta a causa della pandemia – che “nessuno si salva da solo, perché siamo tutti nella stessa barca tra le tempeste della storia”.

Di qui ancora una volta l’augurio, il sogno, di passare dall’io al noi, di “remare insieme e confortarci a vicenda”, perché “non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme”.
Rigenerare il nostro futuro nel segno della fratellanza universale abbandonando sia l’io dell’individualismo non partecipativo sia il noi del populismo demagogico ed antidemocratico: questo il messaggio della Chiesa per arginare queste terribili derive della nostra società.