“Perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza”. In questo passaggio del testo moderno del giuramento di Ippocrate è sintetizzata la missione del medico: scegliere la vita.
In un periodo non molto lontano della nostra storia, alcuni uomini con lucidità e consapevolezza si arrogarono il diritto di scegliere la vita o la morte per altri uomini. Questo è avvenuto durante il periodo nazista nei campi di concentramento di Auschwitz, in Polonia.
Auschwitz ha dimostrato molti aspetti dell’umanità: che gli uomini sono capaci di commettere innumerevoli atrocità, ma anche che l’uomo può accettare e sopportare ogni malvagità pur di sopravvivere.
Il campo di sterminio nazista di Auschwitz oggi è il simbolo dell’Olocausto e del terrore; qui migliaia di prigionieri, uomini, donne e bambini morirono di stenti, fame, lavoro estenuante, malattie, epidemie, torture ed esperimenti medici criminali. I medici nazisti rivestirono un ruolo cruciale negli avvenimenti del campo, in quanto partecipi a tutte le selezioni e quindi giudici della vita o della morte dei prigionieri.
La storia medica di Auschwitz è riassunta, ad esempio, nella vita e nelle azioni di Carl Clauberg, medico tedesco che fece delle atroci sperimentazioni di sterilizzazione sulle donne prigioniere; o nella vita di Josef Mengèle, definito “l’Angelo della morte”, che fece di bambini gemelli, ebrei e zingari, cavie da sacrificare nel nome di una finta scienza.

Oggi il campo di sterminio più conosciuto al mondo è un museo che ricorda una tragedia, raccontata in un’esposizione permanente dei segni tangibili del dramma umano di migliaia di persone. Valigie, alcune con i nomi e gli indirizzi delle vittime, scialli per la preghiera, e poi ancora protesi, scarpe, spazzole, occhiali.

Toccante è scoprire che su alcune parti dei muri, sul soffitto in particolare, ci sono ancora oggi, delle frasi, dei disegni, dei messaggi scritti dai prigionieri, quasi a volere tenere saldo un filo di speranza, legato al mondo esterno.
Fermarsi davanti al muro della morte, dove avvennero migliaia di fucilazioni, sostare in preghiera nel cortile del blocco numero 11, in corrispondenza della cella dove morì san Massimiliano Kolbe, significa che il passato non è mai soltanto passato, ma ci riguarda e ci indica il cammino da fare.
Ripercorrere i sentieri della memoria ad Auschwitz è un’occasione per riflettere sulla sofferenza.
Ad Auschwitz II – Birkenau furono uccisi circa un milione di Ebrei europei, e per rispettare la sacralità del luogo, in cui vennero ritrovati anche resti di ceneri umane, si decise di lasciare intatto il terreno del campo.
Ripercorrere i passi dei prigionieri significa quasi riuscire a percepire le loro voci, vedere i loro visi, incrociare gli sguardi persi e impauriti di coloro che lì videro svanire gli affetti più cari, i sogni e i progetti delle loro esistenze.

E poi quell’ultimo tratto di ferrovia. Quanti prigionieri condusse nel campo, uomini, donne, bambini e anziani per i quali, dopo giorni e giorni di viaggio, stipati in vagoni, si aprirono le porte delle camere a gas.
L’unica zona del campo adibita a museo si trova nell’edificio della “Sauna”, luogo in cui i deportati furono spogliati dei propri vestiti e degli oggetti personali, e tatuati con un numero di matricola, da quel momento in poi il loro nuovo “nome”.
Lì c’è una raccolta di fotografie familiari, scatti di vita quotidiana, di eventi felici, di momenti speciali, come quelli che accomunano tutte le famiglie del mondo. Immagini che, come frammenti unici, restano a testimoniare le esistenze spezzate delle famiglie deportate.
Quattro lapidi di pietra scura indicano il posto in cui riposano le ceneri di uomini, donne e bambini.

Non poco distante, il monumento in memoria delle vittime del campo, e numerose lapidi nelle varie lingue, ricordano coloro che lì persero la vita, lapidi che parlano di dolore umano e fanno percepire il cinismo di quel potere che considerò le esistenze di migliaia di persone indegne di essere vissute.
